Immaginarmi migliore di te

Ci sei te che dormi sul divano, un divano che odiamo -una deriva quasi  “moderna” e invece ci manca la pelle, il cuoio solido e freddo così rassicurante- e ti scruto sull’uscio.
Ti guardo dormire, stanco dal lavoro e da questa vita che pare ti lasci indifferente: sembri una statua greca, un dio mitologico dai contorni perfetti, un patrizio distante, un narciso addormentato ritratto da qualche pittore del Seicento. Bello e distante perfino nella tavolozza dei tuoi colori, il tuo nome rinascimentale ti si addice come nessuno mai e siamo così diversi che mi sento estranea perfino a me stessa.
E infatti, sei così bello che vorrei poterti perdonare -l’ho pensato, l’ho detto-  ho detto: “Lo perdono, gli perdono tutto”.
L’ho pensato, l’ho detto, ma guardando il tuo sguardo ogni volta colpevole, mi rendo conto che probabilmente non l’ho ancora fatto.
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Gettin’ hot, stayin’ up all night

Non sono  tanto il telefono che ha squillato a vuoto, le parole disattese o il fatto che sono stata dimenticata su una panchina scrostata -proprio la notte in cui il mio sudore perlaceo si mescolava  alle note di quel concerto- a stupirmi.
E’ rendermi conto di essere stata un giocattolo mentale.

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Il sorriso in carta KodaK

Non ti pensavo da tanto tempo: stavo ammassando le macerie, arginavo danni, cancellavo ricordi seriali che ho selezionato per il mio tritadocumenti e mi lasciavo fottere il cervello, giusto per schiantarmi ancora un po’, sempre meglio che non provare un cazzo, giusto?
Non ti pensavo da tanto tempo -qualche giorno, un tempo d’infinita separazione per me- esattamente come mi avevano detto: “Ad un certo punto, ti succederà che non ci penserai, non lo farai di proposito, ogni giorno un minuto in meno fino al resto della tua di vita” e io bestemmiavo, mi ribellavo anche solo al concepimento di un’idea così paradossale e assurda.
Non ti pensavo da tanto tempo: ero occupata a diventare grande, ché non avrò mai più vent’ anni anche se te l’avevo giurato, anche se ti avevo promesso che avrei vissuto anche la tua vita. 
Mi rimangio tutto:  non è quello che avresti meritato, né quello che avresti voluto per me “sei una farfalla” ma ho cambiato colori un centinaio di volte e non erano quelli che vedevamo al sole di quei selciati di parole che non ti ho detto.
E, mentre mi distruggevo sul tapis roulant, pensando “senza mangiare, senza dormire, mi si spappolerà lo stomaco e mi si alienerà l’anima dalla solitudine”  mi sei venuto in mente: ho reimpostato il programma, ho raddoppiato  pendenza e  velocità e ho alzato il volume della musica. 
Ti ho pensato proprio  in quell’istante senza senso, eppure il tuo sorriso in carta Kodak è sul mio comodino da anni ed è tutto quel  che ho di te.
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Ingranaggi che s’inceppano

Quelle mattine iniziate male: ti svegli da sola mentre la tua casa di naufraghi alla deriva dorme ancora e la cosa ti da quel misto di sollievo e senso di colpa; invece riescono a captare il passo leggero dei tuoi piedi scalzi e ancor prima che le tue labbra raggiungano l’amaro del caffè, realizzi che è cominciata l’ennesima giornata della tua vita diurna di soldato inflessibile.
Ed organizzi, telefoni, impartisci e prendi ordini, mentre ti vesti davanti allo specchio ripassi l’agenda mentale dell’affanno, chiudendo un cassetto dello scrittoio ti accorgi di quella lettera  che hai volutamente ignorato -ché sei stanca di lasciarti trafugare il corpo, ma non puoi, semplicemente non puoi- 
Esci col sole per sederti in un’aula stracolma, il quaderno bianco davanti, la penna d’argento accanto -è tutto in ordine, lo vedi? è tutto come vuoi te!- e  nell’attesa del quarto d’ora accademico, s’inceppa il meccanismo dei fottuti prati inglesi della tua mente: lo shuffle ti tradisce e parte quella che sarebbe la verità che diresti a te stessa, una macchia di sangue s’allarga sul foglio candido e sai che non servirà strapparlo.
Solo una cosa so di sicuro: vorrei raschiare la mia faccia contro il muro.
Solo una cosa so di sicuro: lasciare andare tutto il mio dolore contro questo muro. 


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Ti senti sola con la tua libertà.

Sono gesti e consuetudini  che appartengono alla nostra esistenza, il segreto del lessico familiare, una cifra o quella sfumatura che non avresti mai voluto abbandonare.
E’ che questa mattina, hai aperto la porta della mia stanza con la tazza di caffè amaro in una  mano e  con l’altra hai acceso la luce: io ero immersa nel mio letto troppo grande, ingombro di troppi cuscini di seta blu e  hai esclamato “Oddio, sembri  una principessa!” 
E in quel preciso istante -tra il sonno e la veglia- ho rivisto la giovane donna che mi cantava questa canzone un po’ per scherno, ma soprattutto,  per empatica consapevolezza fin dal primo vagito, come fossi una veggente col mio destino tra le mani.
Sei rimasta sull’uscio, ci siamo guardate: i tuoi occhi verdi che ho sempre desiderato avere, dentro il nero dei miei di cui invidi la profondità e il privilegio di potercisi nascondere. Avrei voluto piangere, perché proprio allora mi sono resa conto che mi manchi incommensurabilmente e mi sono chiesta se mai ritornerai.


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And you leave me dancing alone

Riassumendo: 
la musica era alienante talmente bella, il vodka tonic era annacquato, i cinque o sei negroni di questo week end sono stati la mia croce e delizia. 
Per un istante ho pensato che una botta di consapevolezza  mi stesse scoppiando il cuore peggio di un colpo di pistola, poi ho dato un sorso e mi si è smagnetizzata  dal cervello.
Ho dimenticato il telefono a casa: l’ho ritrovato questa mattina tra i cuscini, insieme ad un reggiseno che non ricordo di aver tolto o indossato.
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Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me (ovvero, le cose che non so spiegare)

Ne ho avuta la consapevolezza  al mattino -che era già mattina quando ho chiuso gli occhi, perché il cinguettio degli uccelli che si affollano nella palma del mio giardino, ormai, scandiscono quasi crudelmente il termine ultimo di una dimensione in cui esisto e sono sconvolgentemente io- che scandagliare il mio mondo onirico è stato fatalmente vacillante e probabilmente deleterio: è pericolosamente perverso avere davanti qualcuno che è la tua immagine speculare, ma talmente meraviglioso questo desiderio, talmente nuova la sensazione tangibile -e non solo meramente filosofica- di venire disarmate, che la parte migliore di me, quella fuori controllo e puro istinto, continua a ripetermi “ancora“.
Ma ho dovuto prendere un treno, sedermi sotto il colonnato del Palace e guardare la luce che scintillava nella fontana di Piazza Esedra, per riconciliarmi con queste 24 ore, voltare l’angolo e lasciarmi stupire dalla mia città, che ti lascia aperto l’uscio di un palazzo d’epoca, affinché tu possa sederti su un gradino di marmo per poter dire a qualcuno all’altro capo “sono contenta” [che ci sei ] 
E’ che io ho bisogno di questa ansia per sopravvivere: mi ammazza e mi tiene in piedi, indipendentemente da quello che mi si dice e che già so, indipendentemente dalla mia mia stessa volontà.
Ma sono stata serena per qualche ora: sfilavo tra  le strade sciamanti  e, specchiandomi in una vetrina, mi sono resa conto di avere gli occhi limpidi di aprile e non ho pensato a quanto sarebbero durati: erano bellissimi in quel momento.
Poi, è arrivata, di nuovo, quell’ansia, quell’adrenalina che mi corrode da dentro, che mi rende contraddittoria ed inquieta, lapidaria e dittatrice, la sera è scesa e il mio vestito era troppo leggero (quando l’avevo scelto, lo ero anche io); ma salvifico il deus ex machina “stasera musica elettronica, vengo a prenderti a mezza notte”.
Almeno per stasera sono salva, ed è solo venerdì.
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Salvifici aggrovigliamenti lucidi

Non avrei mai immaginato di chiamare una delle mie tante personalità Vincenzo.

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Disgelo


Forse ora l’ho capito perché amo tanto poco e tanta poca gente.
Perché amare mi squassa: ti amo con gli occhi fino a stravolgermi la vista, con le mani che ti sorreggono, sfidando leggi fisiche che dicono il contrario, con le viscere che mi si arrovellano e quando non sei in grado di vivere la tua vita, lo faccio io per te.
E per lei, ho resettato la mia vita, l’ho fatta in tanti pezzi ordinati e l’ho conservata in freezer, aspettando la tregua, con lo sguardo vigile, senza mai abbassare la guardia sui suoi passi incerti: non avrò pace, finché non saprò, dai suoi occhi liquidi e trasparenti che non ho ereditato, che questo nuovo percorso potrà darle la serenità che le ho visto sognare.

Poi riuscirò a tirare fuori i pezzi, a rimetterli insieme come ogni volta, a concentrarmi sulla mia di serenità, un concetto vago e fumoso che ho sempre sacrificato in favore di un’esistenza che volevo vivere come un’opera d’arte, mia, personale e schifosamente imperfetta; a riprendermi il mio corpo, eretto ad altare e tempio per compensare un cervello troppo ingombrante, che ho maltrattato, ignorato e portato allo stremo, forse per le contingenze o, più probabilmente, perché era così liberatorio non avere il controllo su qualcosa.
Ho continuato ad interpretare il personaggio della me stessa che ero, nemmeno fossi un’attrice che deve rispetto al suo pubblico: davanti allo specchio, nemmeno ti riconosci e provi orrore; i tuoi viaggi, i tuoi progetti, lo scintillante privilegio di avere l’opportunità di solcare strade in discesa, seppur con qualche incidente roboante, non sono più la tua di vita, ma di un’altra. 

E quell’altra era la più adorabile e disarmante stronza che si potesse conoscere.

Ma le cose stanno cambiando e  sento qualche lastra di ghiaccio staccarsi dal fondo: ho sorriso per una striscia di sole, sto riordinando il mosaico (ma i tasselli sono tanti e policromi, un attimo cazzo!) e continuo a vivere in bilico tra il desiderio di un abbraccio che non riuscirò a chiedere mai e la necessità vitale di controllare l’esistenza per paura che mi scivoli dalle dita.
Mi manca il mio armadio.
Roma, marzo 2011: disgelo
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Tecniche di smaltimento e bicchieri vuoti

Per alcuni l’alcool è consolante, un patetico tentativo di autocommiserazione; a me, in teoria, piace quella sensazione di straniamento che dovrebbe farmi dimenticare chi sono, allontanarmi dal dolore e dalla vita diurna. Ma, da sei mesi a questa parte, non ha alcun effetto su di me -fenomeno alquanto bizzarro- : svuoto bicchieri uno dopo l’altro e continuo a rimanere pericolosamente lucida, mentre il cartonato, festaiolo e  inutile mondo di piccoli mentecatti che frequento mi cola addosso come una secchiata di vernice fresca; adulatori, cialtroni sentimentali, puttane bipolari, ossessivi compulsivi sono tutti in circolo a fare la ruota, mentre io riesco a vedere chiaramente qualunque cosa, perfino quanto sia imbarazzante che nel 2011 la gente si metta ancora indosso vestiti di lamè.
Potrebbe facilmente essere scambiato per un disturbo della personalità questo mio modo di scindere le ore diurne da quelle notturne, questo essere esattamente due persone apparentemente diverse: semplicemente, è il mio modo di esercitare il controllo su una vita paurosamente in bilico, l’unico sistema già collaudato di arginamento danni che conosco, non necessariamente quello meno indolore.

 


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