Forse ora l’ho capito perché amo tanto poco e tanta poca gente.
Perché amare mi squassa: ti amo con gli occhi fino a stravolgermi la vista, con le mani che ti sorreggono, sfidando leggi fisiche che dicono il contrario, con le viscere che mi si arrovellano e quando non sei in grado di vivere la tua vita, lo faccio io per te.
E per lei, ho resettato la mia vita, l’ho fatta in tanti pezzi ordinati e l’ho conservata in freezer, aspettando la tregua, con lo sguardo vigile, senza mai abbassare la guardia sui suoi passi incerti: non avrò pace, finché non saprò, dai suoi occhi liquidi e trasparenti che non ho ereditato, che questo nuovo percorso potrà darle la serenità che le ho visto sognare.
Poi riuscirò a tirare fuori i pezzi, a rimetterli insieme come ogni volta, a concentrarmi sulla mia di serenità, un concetto vago e fumoso che ho sempre sacrificato in favore di un’esistenza che volevo vivere come un’opera d’arte, mia, personale e schifosamente imperfetta; a riprendermi il mio corpo, eretto ad altare e tempio per compensare un cervello troppo ingombrante, che ho maltrattato, ignorato e portato allo stremo, forse per le contingenze o, più probabilmente, perché era così liberatorio non avere il controllo su qualcosa.
Ho continuato ad interpretare il personaggio della me stessa che ero, nemmeno fossi un’attrice che deve rispetto al suo pubblico: davanti allo specchio, nemmeno ti riconosci e provi orrore; i tuoi viaggi, i tuoi progetti, lo scintillante privilegio di avere l’opportunità di solcare strade in discesa, seppur con qualche incidente roboante, non sono più la tua di vita, ma di un’altra.
E quell’altra era la più adorabile e disarmante stronza che si potesse conoscere.
Ma le cose stanno cambiando e sento qualche lastra di ghiaccio staccarsi dal fondo: ho sorriso per una striscia di sole, sto riordinando il mosaico (ma i tasselli sono tanti e policromi, un attimo cazzo!) e continuo a vivere in bilico tra il desiderio di un abbraccio che non riuscirò a chiedere mai e la necessità vitale di controllare l’esistenza per paura che mi scivoli dalle dita.
Mi manca il mio armadio.
Roma, marzo 2011: disgelo