Ne ho avuta la consapevolezza al mattino -che era già mattina quando ho chiuso gli occhi, perché il cinguettio degli uccelli che si affollano nella palma del mio giardino, ormai, scandiscono quasi crudelmente il termine ultimo di una dimensione in cui esisto e sono sconvolgentemente io- che scandagliare il mio mondo onirico è stato fatalmente vacillante e probabilmente deleterio: è pericolosamente perverso avere davanti qualcuno che è la tua immagine speculare, ma talmente meraviglioso questo desiderio, talmente nuova la sensazione tangibile -e non solo meramente filosofica- di venire disarmate, che la parte migliore di me, quella fuori controllo e puro istinto, continua a ripetermi “ancora“.
Ma ho dovuto prendere un treno, sedermi sotto il colonnato del Palace e guardare la luce che scintillava nella fontana di Piazza Esedra, per riconciliarmi con queste 24 ore, voltare l’angolo e lasciarmi stupire dalla mia città, che ti lascia aperto l’uscio di un palazzo d’epoca, affinché tu possa sederti su un gradino di marmo per poter dire a qualcuno all’altro capo “sono contenta” [che ci sei ]
E’ che io ho bisogno di questa ansia per sopravvivere: mi ammazza e mi tiene in piedi, indipendentemente da quello che mi si dice e che già so, indipendentemente dalla mia mia stessa volontà.
Ma sono stata serena per qualche ora: sfilavo tra le strade sciamanti e, specchiandomi in una vetrina, mi sono resa conto di avere gli occhi limpidi di aprile e non ho pensato a quanto sarebbero durati: erano bellissimi in quel momento.
Poi, è arrivata, di nuovo, quell’ansia, quell’adrenalina che mi corrode da dentro, che mi rende contraddittoria ed inquieta, lapidaria e dittatrice, la sera è scesa e il mio vestito era troppo leggero (quando l’avevo scelto, lo ero anche io); ma salvifico il deus ex machina “stasera musica elettronica, vengo a prenderti a mezza notte”.
Almeno per stasera sono salva, ed è solo venerdì.
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