La bambola Matilde

E Matilde -tanto golosa di dolci- ha deciso di lasciarsi morire di fame: una sorta di strano contrappasso autoinflitto, ma io sono convinta, invece, sia stato il gesto autorevole e dignitoso di una stramba vecchina che ha amato immensamente la vita.
La donna sfacciata dalla risata facile e contagiosa che amava le feste vocianti di tavole imbandite, il suo bicchiere di vino corposo e le sue sigarette, che ha parlato di sesso “Ah quanto mi piace, lo farei tutto il giorno!”  fino alla vecchiaia, mentre le donne della sua generazione fingevano la frigidità, nella migliore delle ipotesi.
Ho pensato che proprio pochi giorni addietro, ho raccontato ad una persona speciale l’episodio della bambola che portava il suo nome, proprio perché aveva la bocca corrucciata come la sua: una bambola bruttina e dimessa, ma con le stesse labbra arricciate in una posa troppo familiare da non poterlo ammettere, nonostante la proverbiale permalosità. E disse alla bimba sfacciata esattamente come lei, che aveva avuto il fegato di sfidarla “E’ un onore essere la tua bambola”
che nell’ora esatta in cui se n’è andata, io stavo sognando di mettere al mondo un bambino e, prendendolo in braccio, non si trasformava in qualche strano animale mitologico come in tutti i miei incubi: era un bambino vero. 
Ho acceso la luce e  ho guardato l’orologio: 6 a. m. “ora del decesso” proprio mentre nasceva mio figlio.
La bambola l’ho perduta nei meandri delle ristrutturazioni e dei bauli troppo pieni, ma quella voglia di ridere  
-anche oggi- col  bicchiere in una mano e la sigaretta nell’altra, credo abbia scavato un solco imprescindibile e mi si sia piantata nelle ossa, insieme ai vizi, ai difetti congeniti e a quella dignità incrollabile che so di aver ereditato.
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