Ma non morire di domenica.

Che io la domenica l’ho sempre detestata per molteplici motivi, quelli più significativi si potrebbero riassumere con “Oliver Twist facts” o meglio, il loro corollario: avere una famiglia allargata quando ancora non andava di moda sarebbe bastante a rendere l’idea, se poi si aggiunge un pizzico di  tragedia, una manciata  di pseudo-parentado crudele  e una chilata di drama queen, il risultato dickensiano sarà assicurato.

Al fine di esorcizzare, ho deciso di dare il via ad una nuova inutile rubrica di cui non si sentiva il bisogno, ma del resto sono sostenitrice del superfluo fin dall’epoca di cui sopra
-quando per sopperire si compravano silos di barbie, grazie ho apprezzato-
Ma non morire di domenica” una summa puntuale (?) di quel che il mio rilevatore di robe ha memorizzato e bramato, su cui ho sbavato e bestemmiato, che ho visto e apprezzato e non in quest’ordine. Anzi l’ordine  ça va sans dire.

robe di milan fashion week (solo qualche esempio)

Collections Fall Winter 2012-13 - Milano Emilio Pucci

 

Collections Fall Winter 2012-13 - Milano Luisa Beccaria

 

Collections Fall Winter 2012-13 - Milano Bottega Veneta

 

Collections Fall Winter 2012-13 - Milano Jil Sander

 

Collections Fall Winter 2012-13 - Milano Gucci

 

Furla

 

abitudini (vecchie) e pezzi di carta (vecchi e nuovi)

Jennifer Egan/Virginia Woolf/caffè&whatsapp

 

 

 

vedo robe

Girls in the Windows, New York City, 1960

 

Liselotte Watkins

 

New York view

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RisiKo

È che detesto convivere coi sensi di colpa, c’ho questa fissazione barocca delle alleanze
-sempre quest’attitudine di giocare a risiko con la vita, eh che noia- e allora organizzo sfibranti sedute di verità in cui si è costretti a specchiarsi a vicenda: no, non sono una che confessa colpe per alleggerirsi la coscienza, io sono il prototipo del “voglio capire” e mentre lo scrivo già mi irrito; è irritante la gente che deve sempre capire tutto, avere chiara la situazione e che niente deve sfuggire dal loro campo visivo e che stanno lì a misurare il contatore del controllo, dondolandosi autisticamente sulla sedia.

Ora potrei dire che lo faccio per affetto, amore, rispetto e assoluto bisogno di costruire un equilibrio, ma ho scartato un cadeaux e devo specchiarmi: non ho tempo per raccontarvi quanto mi piaccia quel che vedo.

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Veleno in comode confezioni

Ho smesso di fumare poco più di un mese fa, perché odio le dipendenze: pippare la cocaina in bagni patinati ed altolocati che come fai a chiamarli “cessi” o calarti gli acidi nel parcheggio a pagamento, non è che siano più disdicevoli ai miei occhi. Semplicemente, io ho scelto come al solito  un sistema a rilascio prolungato di merda -certo con una gestualità più accattivante ed un non poco rilevante aspetto legale- ma non è quello che da sempre mi manda in bestia, non è tanto l’autosomministrazione consapevole di catrame nei polmoni: a mandarmi in loop  è quell’atteggiamento da tossica che si ancora alla sua copertina di Linus ché senza sbroccherebbe, è quel “ne sono rimaste cinque, esco a comprarle che non si sa mai“, è il non ricordarsi quando una paranoia è stata sostituita da un’altra, della serie “oddio se mi rapissero e non avessi il tempo di infilarmi le scarpe-gli occhiali ecc. ?” a “me le comprerebbero le sigarette?”.

Allora sembra che ho smesso, il fatto che io debba comunque trovare nuovi sistemi per avvelenarmi è un’altra storia che ho chiuso in un pacchetto.

Past life

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Microchip

“I cambiamenti la spaventano” è diventata una frase trita, un leitmotiv associato alla mia persona che, volendo analizzare a fondo, non mi appartiene poi molto.
Ché ho cambiato un’infinità di esistenze- amici- fidanzati-amanti- piani di studio- guardaroba e, probabilmente, a risentirne sono sempre gli altri: io sembro avere una specie di microchip impiantato sottopelle che si riprogramma ad ogni fine partita in cui io sembro vincere sempre -game set match- in cui sembra che niente mi tocchi, che il cambiamento, per quanto rivoluzionario, sconvolgente e squassante non possa scompormi un capello o arrivare addirittura a sbavarmi il trucco.

Tu hai un cuore che si rigenera nonostante ripetuti morsi e strappi

E magari non ho faticato poi molto a lasciarvelo credere, no dico magari ci credo pure io il più delle volte.

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Che potresti raccontarla tu la mia storia

L’interlinea mi fissa come i tuoi occhi poco fa e dire che sembrava una delle serate di sempre -da quando siamo diventate grandi- (a proposito quando è successo? Ché te dici stanotte, forse è vero o forse lo siamo sempre state) anche se nell’aria fumosa del locale aleggiava una sensazione sospesa, una roba strana che niente che abbiamo ingurgitato in tutti questi anni è riuscito a farci sentire: i miei  assist, la  corte a farci la ruota, l’alcool e le tre di mattina sotto casa mia.
Poi l’autentico: la parte più buona che abbiamo riservato a noi sole, frasi suggellate dalla sacralità di un patto antico, frasi sconnesse ma subitaneamente comprese ché non c’è bisogno di finirle, lacrime private che ci siamo concesse poche volte e il mio scorretto cinismo che ha sortito l’effetto contrario, perché ci mancherà.
E mi mancherai Amica e mentre percorrevo il vialetto guardando l’oleandro, mi sono sfilati davanti tutti i  fotogrammi di questa esistenza: ero abbastanza vicina per poterti tirare un bacio a metà scalinata, ma troppo distante per poterti dire che è stato un film d’autore e che continueremo ad esserne le protagoniste.
Grazie per la vita, tutta quanta.
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Il più crudele dei giorni.

Era oggi un anno fa: una data che inconsciamente vorrei dimenticare, così come tendo a voler nascondere gli eventi osceni, dolorosi ed esecrabili ammantandoli di un alone romanzesco: strofinare forsennatamente l’argenteria, affinché non si veda proprio quell’ammaccatura, quel graffio che tanto stona nello sbrilluccichio. Eppure, in quel solco c’è scritta una storia e in questo giorno c’è il senso recondito, profondo e autentico di ciò che sono e di quello che non sarò mai più; c’è la sensazione che, nonostante tutto,  ho la fortuna di baciarti ogni sera e sentirmi benedetta; c’è la lezione più grande e, al contempo, il lusso che è riservato a pochi: mi stavi scivolando tra le dita, senza che potessi dirti quello che sento, invece oggi posso scrutare la luce buona dei tuoi occhi e sussurrartelo con parole semplici.
C’è la consapevolezza che mai persona è stata tanto amata nella mia costellazione di supernove schiantate e perse, che, sebbene la mia scarsa autoindulgenza non mi conceda sconti -ma una lista infinita di rimproveri per i fallimenti e le procrastinabilità- guardando indietro con terrore a quel giorno, mi chiedo come sia riuscita a sorreggere la nostra familiare “caduta degli dei” proprio con la stessa forza e la stessa altera dignità che mi hai insegnato tu.
Allora mi dico che sì, in fondo questa volta ho fatto la brava.
Sai una cosa? Adesso respiro di nuovo.
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La bambola Matilde

E Matilde -tanto golosa di dolci- ha deciso di lasciarsi morire di fame: una sorta di strano contrappasso autoinflitto, ma io sono convinta, invece, sia stato il gesto autorevole e dignitoso di una stramba vecchina che ha amato immensamente la vita.
La donna sfacciata dalla risata facile e contagiosa che amava le feste vocianti di tavole imbandite, il suo bicchiere di vino corposo e le sue sigarette, che ha parlato di sesso “Ah quanto mi piace, lo farei tutto il giorno!”  fino alla vecchiaia, mentre le donne della sua generazione fingevano la frigidità, nella migliore delle ipotesi.
Ho pensato che proprio pochi giorni addietro, ho raccontato ad una persona speciale l’episodio della bambola che portava il suo nome, proprio perché aveva la bocca corrucciata come la sua: una bambola bruttina e dimessa, ma con le stesse labbra arricciate in una posa troppo familiare da non poterlo ammettere, nonostante la proverbiale permalosità. E disse alla bimba sfacciata esattamente come lei, che aveva avuto il fegato di sfidarla “E’ un onore essere la tua bambola”
che nell’ora esatta in cui se n’è andata, io stavo sognando di mettere al mondo un bambino e, prendendolo in braccio, non si trasformava in qualche strano animale mitologico come in tutti i miei incubi: era un bambino vero. 
Ho acceso la luce e  ho guardato l’orologio: 6 a. m. “ora del decesso” proprio mentre nasceva mio figlio.
La bambola l’ho perduta nei meandri delle ristrutturazioni e dei bauli troppo pieni, ma quella voglia di ridere  
-anche oggi- col  bicchiere in una mano e la sigaretta nell’altra, credo abbia scavato un solco imprescindibile e mi si sia piantata nelle ossa, insieme ai vizi, ai difetti congeniti e a quella dignità incrollabile che so di aver ereditato.
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Poi ti si incrinerebbe il cuore.

“E la ragazza si era alzata come per andare a uccidersi a sua volta, a buttarsi in mare e poi aveva pianto, perché aveva pensato all’uomo di Cholen e tutto a un tratto non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare.”

Marguerite Duras, L’Amante 
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Stella was a diver.

Mi sento sola come una galleria: un libro mai letto che aveva una storia incantevole che non conoscerete mai; quel vestito stropicciato accoccolato nell’angolo quando mi spoglio di domenica mattina grata di non ricordare nemmeno il mio nome; una cartolina sigillata piena d’ingenuità e d’affetto che non ti ho mai spedito, ché ero così limpida, così pulita tanto tempo fa -ma l’istrice dagli occhi bui che sarei diventata lo sapeva già- da non aver trovato il coraggio.
Sono un messaggio che si è perso nell’etere; una lettera deviata dai disservizi delle poste che arriverà a destinazione quando non ci sarò più:  mi avrete persa e anche quel giorno avrò il mio sorriso intollerabile da prendere a schiaffi.
Un gingillo dimenticato -chi cazzo me l’ha regalato?- questi flaconi allineati sul comodino -le mie bambole di seta- che mi hanno tenuto compagnia dentro questo letto-isola in cui non sono riuscita a versare nemmeno una lacrima, a cui non vi siete avvicinati -le infante imperatrici si ammirano solo durante le parate regali- ma tanto non ve l’avrei permesso.
Quel che sono l’ho voluto io.
E prima di tutta quest’ecatombe avrei voluto anche te, splendida ragazzina egoista a cui ho fatto da scudo umano per vent’anni senza un lamento, solo che dovresti conoscermi meglio di chiunque altro: ti ho sradicato senza nemmeno accorgermene, al tuo posto nel mio inutile cuore, il solito fottuto pezzo di marmo (sì, già proprio come con tutti gli altri!) e se, quando ascoltavo questa canzone, sorridevo pensando alle tue mani sudate, alle donne che stavamo -che stavi- diventando, ora sento solo che non esisti più [e che quella canzone parla molto più di me che di te, benché il nome sia tuo e la truffatrice sia tu]
E ti ucciderei per tutto questo niente che mi hai dato.


E domani ho bisogno di uscire da questo letto, di un vestito nuovo e delle sei di mattina, ché nessuno si accorgerà mai dei punti di sutura.



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Le mie parole nelle parole altrui.



E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…


Pier Paolo Pasolini, Supplica a Mia Madre

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